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"It doesn't matter what you do, as soon as you do it with Passion.."

Heart

Cuore,
Parte fondamentale senza la quale non potrei vivere,
Fragile e forte, al tempo stesso
Fonte di dolore e gioia
Tu che aumenti i battiti, causando imbarazzo
Da sempre conteso dagli amanti lussuriosi,
Meraviglia di una notte piena di stelle,
Sventura di un cielo privo di astri
Rischiara la luna, alta nel cielo
Illumina il sole ancor più sereno
Eppure, sarai dannato per tutta una vita a provare atroci dolori.

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L'accademia dei sogni

Per quanto siano irrealizzabili, la gente ama i sogni.
Il sogno ci dà forza e ci tormenta, ci fa vivere e ci uccide.
E anche se ci abbandona, le sue ceneri rimangono sempre in fondo al cuore... fino alla morte.
Se si nasce uomini, si dovrebbe desiderare una simile vita.
Una vita da martiri spesa in nome di un dio chiamato "
sogno".
                                                                                                                  (Bersek)

Tarij era ricci biondi acconciati in boccoli perfetti: quando si muoveva, catturavano i raggi di un sole che accoglieva l'estate. Shade era il nero - della notte, delle tenebre, delle ombre dimenticate dal sole - con quell'atteggiamento da cattivo ragazzo e capelli ribelli che non avrebbe mai domato.

Tarij aveva gli occhi azzurri - come il mare, il cielo, l'orizzonte su cui posava lo sguardo aspettando il crepuscolo. Shade era il grigio - delle tempeste, delle nuvole portatrici di pioggia, dell'argento liquido: un colore che lei non credeva potesse essere catturato, prima di conoscerlo.

Tarij dormiva e sognava, e sfuggiva agli incubi rincorrendo i sogni. Shade, quegli stessi sogni, li plasmava. Rendeva la sua notte un nuovo giorno. Ma la realtà non aveva mai suscitato tanta paura.

Shade non si autocommiserava mai.
Non si fermava a pensare quale sarebbe stata l'opzione migliore, non rimuginava mai sui "se" e sui "ma", né attendeva che altri prendessero decisioni per lui o su di lui. Non si preoccupava di quale immagine di sé dovesse trasmettere, perché nel suo essere ambizioso non aveva mai mirato ad alte aspettative, e quelle erano arrivate piegandosi al suo volere: il più caro tra i compagni, il più desiderato tra le ragazze e il più stimato tra gli insegnanti senza muovere un solo muscolo, né impegnarsi.
Tarij era stata la sua eccezione. E il suo opposto.
Shade sapeva quanto spesso le persone, negli anni, mutino: allontanandosi, non si vive più in parallelo. C'è chi cambia in meglio o in peggio. Le opinioni non combaciano, le idee si discostano, si frequenta altra gente e nuovi luoghi. Quella persona che conoscevi, adesso è un'altra persona. Tarij, ora, era tutta un grande "se" e un grande "ma" che cercava continuamente di nascondere, era l'immagine che voleva dare di sé e non se stessa, un'indifferenza che l'aveva resa regina dei ghiacci, lei che un tempo profumava d'estate e di mare, e di ciò che era bello. Divenuta pomeriggi trascorsi tra i suoi pensieri, rimuginando a tempi che avrebbe solo voluto dimenticare e l'autoconvinzione di odiare, senza alcuna ragione per farlo.
Ogni azione degli uomini è mossa da una ragione.
Quell'aria di superiorità nasceva in lei con l'unica spontaneità che Shade fosse mai riuscito a scorgere in quegli anni di muraglie e fortezze con cui l'aveva estraniato, ed era l'unica cosa della nuova Tarij che, seppur da lontano, aveva imparato ad apprezzare. Ricordò quando l'aveva vista per la prima volta: era stata una cascata di ricci biondi e di occhi azzurri come il cielo d'estate riflesso sul mare. In un vestitino bianco come la neve su una carnagione di porcellana, mentre, imbarazzata, sua madre l'accompagnava per presentarli.

Ricordava ancora l'aria di quella mattina, sebbene fossero passati dieci anni. Profumava d'estate e di mare, del ronzio delle api sui fiori del giardino e della delicatezza delle cose che la circondavano – come gli alberi, il rumore del vento tra le foglie, il cielo senza nuvole.
- Andiamo a trovare degli amici di famiglia, Tarij. Vieni a prepararti. - le aveva detto sua madre, mentre si aggiustava la cerniera di quel suo bel vestito e legava i capelli, che vantavano lo stesso colore di cui poteva andar fiera sua figlia.
- Arrivo! - aveva urlato. E poco dopo, una bambina dai grandi occhi azzurri annuiva ad una mamma intenta in mille raccomandazioni, mentre la seguiva, su per le scale, verso la sua camera. Indossava un grazioso vestitino del colore del mare, circondato da una cascata di boccoli – i raggi del sole catturati e rispecchiati suoi capelli d'oro, il colore del mare riflesso nei suoi occhi di cristallo.
- Hanno un figlio della tua età, sai? Sono sicura che andrete molto d'accordo - la informò, compiacendosi della felicità negli occhi di sua figlia. Anche se quest'ultima, ben presto, mise il broncio, diffidente com'era dai suoi coetanei, mentre stringeva la camicia della mamma per rimanere in equilibrio e si faceva aggiustare il colletto. Veniva sistemata, accarezzata, circondata dall'affetto.
- Come si chiama? - domandò, dopo un lungo attimo di silenzio.
- Shade, tesoro. Vi divertirete.
Aveva sbuffato, all'epoca, e già vantava, con quel suo piccolo nasino alla francese, l'aria di superiorità che non l'avrebbe mai lasciata.

Aveva sette anni, quando lo conobbe. Sette anni di silenzi e risate che ancora non sapeva come rendere importanti, ma vi avrebbe posto alla svelta un rimedio. Aveva l'età di chi non fa ancora le proprie scelte, di chi si avvicina ad attraversare il limite dell'infanzia e di chi ne è ancora troppo lontano per entrare in quelli che tutti definivano essere "i tempi migliori". Tarij non ci credeva, ma rettificò le sue idee quando l'incontrò.
Sette è un numero difettoso per natura, troppo ambiguo per trovare un suo pari e troppo introverso per poter passare inosservato.

I suoi occhi racchiudevano il cielo in tempesta, la prima volta che lo vide.
Le rivolse un enorme sorriso, innocente riflesso della sua innocenza.
- Io sono Shade! - esclamò, allungando entrambe le mani verso la bambina che le era dinanzi.
- Mamma ha detto che ti chiami Shaderyn - lo corresse lei, con una lingua affilata che, negli anni, avrebbe imparato ad usare nel modo migliore – per ferire, rallegrare, intimidire e confondere.
Shaderyn mise il broncio, in una buffa espressione delle sopracciglia.
- Non chiamarmi così.
Sono Shade, solo Shade. E tu?
- Io... - borbottò lei, impacciata e arrossita. - Io sono... Rij. - concluse, abbassando la voce a tal punto che si capì da sola.
- Eh? Rij? Che razza di nome è Rij?
Le guance della bambina si gonfiarono come due piccole mongolfiere, rosse sulla carnagione di porcellana.
- Tarij! Tarij! - ripeté, imbronciando a sua volta le labbra piccole e carnose.
Rosse come le ciliegie appena mature.
- Ah! - replicò Shade. - Allora ti chiamerò Tary, perché Rij non mi piace. O magari per cognome... mi piace chiamare le persone per cognome. Tarij Sheridan, giusto?
Lei sgranò gli occhi, prima che la consapevolezza la invadesse. L'aveva presa in giro fin dall'inizio.
Aveva sempre saputo il suo nome.
- Sei antipatico - costatò.

Era stato un traguardo lungo, per lui, quello per guadagnarsi la sua fiducia. Shade si era messo d'impegno per rendersi all'altezza di essere suo amico. Il suo migliore amico. Erano stati due anni in cui, puntualmente, alle otto e trentuno di ogni vacanza estiva trascorsa insieme bussava alla sua porta ("Non prima delle otto e mezza!", gli diceva lei), in pigiama o già vestito, e ad accompagnarlo c'era un sacchetto di dolciumi appena sfornati che ancora vantavano il loro profumo. Era entrato nel cuore di tutti, in quella famiglia. Tarij lo accoglieva con un sorriso enorme, l'aspettava ogni mattina e, quelle poche volte in cui lui era malato, era lei a portargli la colazione in casa. Si sedevano sul divano o in cucina, davanti alla TV o al computer, in una maratona di telefilm e cartoni che piacevano ad entrambi. Scambiavano pareri e consigli e riportavano alla mente i giorni che divennero anni e si trasformarono in ricordi.

Lui e Tarij si conoscevano da sempre, o almeno così affermava un'ingannevole memoria che non portava ricordi di una sua vita passata senza di lei. Giocavano insieme nei giardini di casa e tornavano sempre sporchi d'erba e terreno, di foglie che s'incastravano tra i capelli biondi e sporchi della piccola Tarij e di fango che s'incrostava sui jeans strappati del piccolo Shade. Lei aveva sempre il volto coperto di lentiggini e il profumo dei fiori.
Lei e Shade si erano conosciuti in un bar, negli anni in cui l'adolescenza è stata ormai accettata e i quindici anni aprono le porte di un nuovo mondo. Le aveva offerto un caffè, come aveva visto fare ai grandi, e lei aveva accettato, non per piacere quanto per convenienza, nell'imbarazzo che l'aveva colta quando si era accorta di non aver portato con sé nemmeno un centesimo. Si era poi lasciato scappare un sorriso, quando aveva scorto che il sole dipingeva ancora lentiggini sul suo viso.
Lui e Tarij si erano conosciuti sulle scale di scuola, testimoni di un'inaspettata conversazione. Lei stringeva un quaderno azzurro, ed azzurro era il colore dei suoi occhi quella mattina. Il colore del cielo e del mare. E si erano detti tutto: della scuola, dell'estate, delle loro prossime ma separate vacanze, di un bambino e una bambina che giocavano in un prato. Tarij profumava già di sole e di mare, seppur fosse solo un pomeriggio di marzo.
Lei e Shade non si erano mai conosciuti. Tarij avanzava con passo deciso tra i corridoi dell'istituto, si fermava a chiacchierare con le sue frivole amiche e disperdeva sorrisi a chi si fermava per salutarla, bella come la Venere che Botticelli aveva dipinto. Le sue lentiggini erano scomparse, nascoste da maschere di trucco, ed il suo profumo era diventato costoso e roseo, i suoi vestiti non erano più stati sporchi di erba, fango o foglie ed i suoi capelli erano boccoli dorati sempre perfetti. Il suo interesse catturato dall'attaccante della squadra scolastica, un tale Jared dell'ultimo anno. Shade aveva sempre attenzioni intorno a sé, e nessuna che fosse mai ricambiata. Era probabilmente il ragazzo più desiderato della scuola, amichevole ed affascinante, sexy e divertente, intelligente e mai banale, bello come un dio greco e circondato da amici sinceri. La sua ragazza, Melanie, non era da meno, nella sua grazia altera e irraggiungibile.
Ma c'era una persona che Shade non guardava mai, ed era la stessa dalla quale non veniva mai guardato.
Perché loro non si erano mai conosciuti.

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La colpa di Ludovica.

​Paranoia. Ossessione. Odio verso sè stessi. Alienazione.
Guardo il mio volto allo specchio, prima di andare in onda. 1...2...3.. osservo ogni centimetro della mia pelle, ogni angolo, linea, in un'assenza di armonia che mi crea solo la nausea di ciò che ho bevuto la sera prima. Non è il non piacersi, è il farsi schifo. Mi sembro così imperfetto, così insoddisfacente, noto ogni difetto, ogni angolo delle labbra che non dovrebbe essere piegato così, ogni espressione, le faccio allo specchio come De Niro in Taxxi Driver, ma non mi convinco. Sono come un Attore che prova la messa in scena e riguardandosi stomacato, riprova la parte, ancora, infinite volte, tante che il tempo scorre e ho passato ore a guardarmi allo specchio e a toccarmi senza riconoscermi.
Il mio pubblico non deve vedermi così.
Il mio pubblico deve vedermi perfetto, come quella volta in cui tutti mi scrissero che ero bellissimo.
Eppure mi hanno visto... Almeno sei volte, dopo quel giorno. In due mesi, hanno visto il crollo scolpirsi sulla mia faccia e forse, sono pure arrivati a quel disgustoso senso di compassione nei miei confronti.
Anche ora mi dicono che sono bellissimo. Lo fanno perchè vogliono io ci creda davvero, non perchè lo credono loro. Lanciano la monetina nel mio bicchiere, costa poco, una frase, un pensiero. Ma io li noto, li conosco, osservo le loro facce pur lontane e capisco, riconosco, che io sono solo un mostro.
E allora riprendo in mano la mia camicia, la riabbottono, rimetto le mani nei capelli e compulsivamente li sistemo. Minuti che diventano ore. Occhi che diventano pesanti.
Ancora non mi piaccio, ancora non sono pronto per andare in scena. Sono ad ogni comparsa, un centimetro peggio di quella precedente. Cosa penserà di me, il mio pubblico? Si rassegnerà? Probabilmente si è già rassegnato. Non che a loro cambi molto, finchè la performance messa in scena è decente, ma a me sì. A me cambia. Cambia sapere che non ho eccitato i loro corpi, che non sono rimasto fisso nella loro testa alla fine dello spettacolo, che hanno parlato, si sono guardati e sono tornati a casa con le loro facce sul cuscino e le loro dita tra le mutande umide.
Senza desiderio, uccidi un Dio.
Non sono più in grado di attrarre, neanche se mi collego col cosmo e provo a stare e sostentare al suo bisogno. Voi, la chiamate moda , tendenza, stereotipo. E io, ho provato a seguirne qualcuno, a modificarmi e cambiarmi come un bruco che diventa farfalla inseguendo una trasformazione non mia.
Falena.
La gente odia le falene e a me stesso, fanno abbastanza schifo.
Un mostro geneticamente scorretto, un'aberrazione umana... E se pensate che questo, sia troppo per qualcuno che fa del male a sè stesso, dovreste vedere quando arrabbiato mi stringo con le unghie sulla carne, come per strapparla, dal mio viso, dal mio corpo, dai miei occhi. Vorrei solo tirarla via e rifarla come meglio credo.
Non ha funzionato niente, nessuna ricetta, rimedio, consiglio.
Sono morto ed è morto il Sesso che ispiravo, da quando lei, Ludovica, mi ha guardato per la prima volta coi suoi occhi profondi tanto da svuotarti di ciò che sei.
E' iniziato da lei. Da quando sapendo che lei mi guardava, seduta tra gli spettatori, io non ho fatto altro che pavoneggiarmi e giostrarmi provando a piacerle, un po' di più.
Non che chiedessi tanto, mi sarebbe bastato provocarle addosso l'esatta sensazione che lei faceva a me. Quale fosse, chiedete? Era quella cosa che ti capita quando incontri un uomo od una donna, talmente... stranamente... belli... da non riuscire a non guardarli, fissarli, indipendentemente dal quante persone stiano attorno, vi sfiorano o sbattono contro la vostra spalla di passaggio. Voi siete drogati, in un cerchio che si assottiglia... Posso eccitarmi anche solo guardandola bere un Drink e vedere il suo collo muoversi facendo scendere la bevanda fino allo stomaco. Io sono quel Drink, mi sento come se le stessi entrando dentro e spogliandola di ogni dettaglio. Riesco a vederla nuda, a sentire che caldo avrebbero i suoi seni stretti tra le mie mani... Eppure sono distante, non posso toccarla, ma i miei occhi, le stanno addosso e svestono la sua carne nuda.
Da quel giorno io non avevo un pubblico. Io avevo Ludovica. Le altre persone scomparivano, come inconsistenti statue di fumo e ad ogni mio spettacolo, riuscivo solo a concentrarmi su di lei e sulle reazioni del suo viso.
Ma non le piacevo, mai.
Anche quando sorrideva chinando il capo e arrossandosi le guance, teneva una distanza tale da farmi sentire piccolo ed inutile come una foglia mossa dal vento. Era gentile. Tanto da saper fingere quello che le chiedevo implicitamente. Ma io notavo la sua finzione, ogni bravo attore la nota e man mano che lei calzava e recitava il suo personaggio, io mi scordavo del mio, mi disfacevo come carta bruciata, davanti a tutti i miei spettatori.
Ero nudo anche con un maglione addosso.
E vedevano addosso l'odio che provavo per me stesso.
Il senso di impotenza mi corrose, si nutrì del bello che avevo creato e se lo portò via, buttandolo tra i piedi di Ludovica che distratta, lo calpestò ammazzandolo.
Venne ai miei ultimi spettacoli ma non si sedette più in prima fila. La vedevo sullo sfondo, vicino alla porta e anche se le luci erano abbaglianti e bruciavano le mie pupille, potevo vederla... ridere?
Rideva di me.
Fu allora che mi resi conto, che il pubblico in sala si era svuotato, le poche persone rimaste, perplesse guardavano imbarazzate la mia penosa messa in scena. Lei ci fu. Fino all'ultimo. Fino al mio ultimo solitario spettacolo.
Fui solo su un palco. Solo da sentire il freddo della sala gelarmi le ossa. Che spettacolo penoso.
Cieco e perso nella mia immagine di mostro riflessa in un vetro scheggiato, sentii i suoi tacchi risuonare sul pavimento e muoversi nella mia direzione.
Alzai lo sguardo, ma tutto ciò che vidi furono le luci accecanti ed un vestito nero con forme bellissime ed una mano con una sigaretta Clark imbevuta di rossetto.
' Ti amo. '
Fu l'unica frase che riuscii a sussurrare, poco prima di morire.
L'ultima cosa che vidi, fu il suo sorriso malizioso farsi soddisfatto. Da come arricciò le labbra, capii perfettamente cosa potesse pensare in quel momento:
' E' stato facile. '
Poi, svenni esanime a terra.
Come un usignolo che muore e ritorna Corvo, mi svegliai l'indomani attaccato a degli strani macchinari lampeggianti, bip assordanti risuonavano nelle mie orecchie e camici bianchi si spostavano come fantasmi....
Un giorno un mio amico mi disse: ' Ricordati che nonostante tutto, sei ancora vivo. Che domani ti sveglierai e sarai ancora vivo. Che anche se la notte sarà buia, sarai vivo. Finchè sei vivo, non hai motivo per stare male. '
Ero ancora vivo. Come tutte le altre volte. Ero lì e la mia testa funzionava, potevo sentirne le immagini a cui avrei dato vita ed i capolavori che ancora dovevano essere scritti. C'era malessere, ma scavandoci sotto, potevo vedere che non era morta la mia creatività. Così come la mia bellezza, che sembrava piangere come un'ombra tagliata via in un angolo, ed era arrabbiata con me e mi strillava ' Come hai potuto dimenticarti di me, per lei?! '
Allora le risposi: ' Vedi piccola ombra, il problema di noi esseri umani... è che non bastiamo mai a noi stessi. ' 

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My demons still haunt me

​Sento il bisogno di comunicare ciò che non voglio sentire. Sento il bisogno di parlare di ciò che provo con qualcuno, non per forza con una persona, mi basta anche questo "foglio" bianco, voglio, per questa soffocante notte di fine maggio, fondere il mio animo con l'inchiostro cenerino, anche se è solo un misero codice e dell'inchiostro non ha neanche l'odore.

Non ora.

Non qui.

Au revoir.

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Giornata di sole

In classe oggi c'è un'aria leggera, avete presente? Ci sono quei giorni in cui la classe è una pezza che pressi da dove esce costantemente ansia, no oggi la classe sembra più luminosa, pulita, si stava davvero bene, il caldo di maggio viene compensato dal vento fresco che entra dalla finestra.

Suona la campanella, il prof. Scarlata manca da circa un mese, innanzitutto dovete sapere che questo docente è il classico che non fa studiare nulla tutto l'anno, sgrammaticato e gli ultimi giorni di scuola ti fa studiare quelle due-tre paginette per fare gli ultimi scrutini e non ha mai dato un debito in vita sua.

In ogni caso, stiamo tutti qui, ad aspettare tranquilli tranquilli, quasi a braccia conserte, è strano perché di solito al cambio dell'ora siamo un ciclone... io quasi impietrito comincio a fare pensieri su come sarà il nuovo professore, esatto già me lo immaginavo maschio, vecchiotto, col pancione e stempiato. Ad un certo punto dalla porta della mia classe entra questa, beh non so se chiamarla signora o ragazza, la sua immagine contrasta di certo la mia immagine del nuovo prof. quasi come uno shock. Comunque camminando in modo sciatto perché evidentemente non sapeva portare i tacchi, ondeggiando come un grattacielo Giapponese riesce ad arrivare fino alla cattedra.

Già avevo capito che non era come il prof. Scarlata, sembrava una che si interessava, ed anche molto.

Infatti, che vi avevo detto? Ancora prima di presentarsi comincia a dire -Ragazzi con me bisogna studiare bla bla bla... è addirittura arrivata a parlare di debiti, certo, non mi beccherei mica un debito di Scarlata per questa, pff sarebbe ridicolo. Non mi prendo nemmeno la cortezza di ascoltarla, scrivo,scrivo con la mano quasi arrossata per quanto lo faccio veloce ed ogni arco di tempo la guardo facendo finta di stare attento e toccandomi il sopracciglio ripetutamente, è il mio nuovo tic, la guardavo principalmente per paura di essere scoperto a scrivere perché sicuramente mi avrebbe chiesto stavo scrivendo ed avrei dovuto aprire un discorso troppo grande e poi non mi va che una persona debba farsi i fatti miei, lo odio.

Comincio a pensare quanto non mi piace quando una persona vuole o cerca perlomeno di conoscere l'altro in maniaera così superficiale quando la prof. dice -Facciamo un pò di conoscenza, dite come vi chiamate e quali sono i vostri hobby-.

Ad ogni modo suona la campana, esco da scuola e mi accorgo che l'estate è praticamente alle porte, con il mio raffreddore che mi porto dall'inverno cerco di scrutare più odori possibili, nel tentativo di avere flashback dagli odori, ma niente, quel dannato raffreddore.

Però sono felice, non c'è un motivo logico, però dovete sapere che la mia felicità è per lo più scandita dai tempo della giornata, quando c'è il sole riesco ad affrontare le soluzioni più positivamente, mentre d'inverno sono un depresso cronico potrebbero capitarmi le cose più belle del mondo.

Poi mi sono messo a pensare a quanto è stata bella l'estate 2016, le tipe, la vodka, i falò in riva al mare, fare tardi, svegliarsi col buio, andare a dormire col sole.

Solo adesso che sto pensando a tutto questo riesco ad avere una sorta di flashback degli odori inverso, cioè dai ricordi pensati riesco quasi a sentire l'odore di quei pini che mi accompagnavano durante le passeggiate in bicicletta o l'odore del fumo che proveniva dal fuoco del falò che ardeva.

Adesso sono costretto ad abbandonare questi bei momenti per tornare a casa, che è pronto.

Chissà se anche quest'estate riuscirò a superarmi... 

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