- Nota dello Scrittore : Questo è un esercizio, una prova, un algoritmo che conosco e ogni tanto voglio rispolverare... L'inflessione di Murakami sul mio stile di scrittura, ha portato a semplificarmi nel lessico, nella messa in pagina, nel come racconto determinati fatti ed eventi in prima persona... Simili a flussi di coscienza di Joyce, in cui la semplicità è in realtà frutto di una ricerca ben più complessa, rinchiusa in crisalidi e sfumature di lettura, e che racchiude definizioni più forti di quelle puramente ' belle da leggere, perchè scritte bene ' .
Per tanto, ho deciso di rimettermi la sigaretta in bocca e rispolverare la macchina da scrivere, solo per dimostrare, che sono ancora in grado di farlo. -
Kayn strofinò il suo cappello nero impolverato dalla fuliggine dei camini di Londra e sbuffandoci sopra, lo appoggiò sulla testa.
Le sue mani puzzavano di tabacco da fiuto, ma non meno del suo fiato, ancora rigurgitante di alcool e gin secco, probabilmente, risalente a qualche sera prima... ( Ammesso e concesso che si ricordasse l'ultima volta in cui si fosse lavato i denti. )
Diede una spolverata ai suoi vestiti, si rimise in piedi e si specchiò nell'argento laminato di una specchiera rotta, buttata giù in strada.
- Che schifo di posto - mormorò tra sè e sè.
La sua barba incolta, perdeva il contorno insieme ai suoi capelli lunghi, come trecce di cavalli dal manto scuro.
Si frugò tra le tasche strappate, alla ricerca del suo Zippo con stampato sopra la Sacra Muerte messicana. A stento si vedevano le linee del viso di quella donna, ormai diventata un ricordo di anni passati e rimpianti, sbavati e buttati laggiù, nell'argine del fiume in cui non tornavano più, i momenti migliori. Eva gliel'aveva regalato. Gliel'aveva lasciato su un comodino, al suo risveglio, con una lettera imbevuta di profumo femminile e un bacio stampato con un rossetto lilla.
' Dato che ti piace tanto fumare, ho deciso di comprarti una piccola cosa. Così, ogni volta che ti accenderai una sigaretta, ti tornerà in mente la nostra notte. '
Kayn non riusciva neanche più a ricordare che cosa significasse entrare nel corpo di un'altra donna... Ormai, ci aveva rinunciato a trovare spiegazioni logiche che avrebbero ' giustificato ' il suo fallimento come amante, come padre e come uomo. Lui si era semplicemente ' lasciato andare ', ci aveva rinunciato, gettato la spugna, si era così dannato nel provare a ricostruirsi una dignità, che oramai, la sporcizia delle strade di Londra e i ratti che la popolavano, l'avevano quasi convinto che era quello il destino a cui lui era stato predestinato.
Eppure una domanda continuava a offuscargli il sonno. Non se ne voleva proprio andare. Non importa quanto lui ci bevesse su, o quanto provasse a respingerlo di forza dentro il vuoto che assordava le sue orecchie. Lui, continuava a sentire la voce di Eva che tormentata e angosciata gli chiedeva:
' Come hai potuto guardare morire il nostro bambino? '
Dannazione. Gli stava ritornando in testa.
Tutto quel sangue sporco, raggrumato, che ancora non riusciva a lavare da sotto le unghie. Il piccolo Kevin con gli occhi azzurri pieni di lacrime e il tallone dello sceriffo Roland che calpestava i mozziconi di sigaretta avvicinandosi alla testa di suo figlio... Quel grasso bastardo che sembrava grondare sudore e merda da ogni poro della sua pelle malata....
Doveva dimenticare. Di nuovo.
Non si dimenticava mai abbastanza, non si riusciva a cancellare quella sequenza impressa su un nastro, quel mormorio e quelle mosche che annodavano il suo stomaco facendolo sentire ancora più in colpa, tanto da non pensare più, di meritarsi una vita migliore.
Si diresse a passi stanchi lungo il viale della quarantunesima strada. Coppie di giovani ragazzi passavano di fianco, ridendo sotto i baffi e facendo battutine, per niente velate, sul come fosse conciato male quello strano tipo. Beffardi, provavano anche a scattare qualche foto di nascosto a quell'uomo che sembrava la morte in persona.
Kayn non li guardava neanche. Per lui erano come fantasmi inesistenti dissolti tra il vapore dei tombini londinesi.
Era il posto perfetto per gente come quella... nelle fogne nauseanti in cui buttarci tutta la loro miserabile esistenza. Che cosa ne sapevano loro, di cosa significasse sentirsi impotenti di fronte alle barbarie di quei pazzi messicani....?
La Locanda di Zaun era sempre aperta, fedele e accogliente, come le botti di vino in vista che accoglieva all'interno. Le panche con le ragnatele, il camino che scricchiolava, i vecchi calici di birra da mezzo litro ancora sporchi e mal lavati, eppure, era come sentirsi a casa. Per Kayn, la locanda, era un rifugio, ma anche una seconda famiglia. Il buon vecchio Fred, gobbo e col sorriso sornione e quella voce così assordante... Come gli versava lui da bere, non glielo versava nessuno. E poi, era gentile. Si accontentava di quei pochi spicci che Kayn aveva raccattato durante le sue giornate a fare lavori di muratura, in nero, per qualche signore che aveva bisogno di manovalanza in giornata.
- Allora Kayn? Anche stasera si tira nottata,eh? Troppo preso tra i tuoi pensieri.... - Gridava Fred mentre passava con uno straccio ormai grigio il bancone da Bar.
- Già. - Rispose Kayn accomodandosi su uno sgabello mangiato ormai dallo scorrere del tempo....
- Fammi il solito Fred. -
Kayn non era di molte parole, almeno non prima di tre o quattro bicchieri. Eppure, quando iniziava a parlare, sembrava trasformarsi in un'altra persona. A volte, lo potevi sentire discutere con qualche forestiero del perchè il ' Long Island ' si chiamasse così e ricordasse il colore del The, del proibizionismo e degli anni in cui il Cocktail veniva fatto passare come bevanda analcolica in thermos per studenti ; Altre volte, ti raccontava storie sul Black Jack, sull'incredibile truffa escogitata da Edward Oakley e sul come questo fosse stato bandito da tutti i casinò esistenti al mondo intero... E parlava, raccontava, spiegava, l'origine degli scacchi, l'antico gioco degli dei, le follie sanguinarie della contessa Erzsébet Báthory e persino il perchè gli Egiziani avevano l'usanza di nascondere i propri capelli....
Era un uomo che ne sapeva del mondo e ne portava i segni come aghi di bussole persi nell'eco dei mari più freddi della Groenlandia...
Kayn era intento come sempre a trangugiare la sua caraffa di vino della casa, aveva un orologio al polso, rotto e fermo all'anno 1897.
Stava giusto accarezzando il quadrante, quando un roboante rumore di porta sbattuta, destò in alto il suo sguardo.
- Scusate, per favore, ascoltatemi! Parlo male la vostra lingua, ma devo sapere se qui c'è un uomo alto e grosso dai capelli scuri che porta sempre un cappello e si fa chiamare Theodor! -
I locandieri scossero la testa ma rimasero a guardare quella donna appena entrata. Non era del luogo e non era tanto meno tipo da frequentare certi postacci.
Portava una gonna in raso dai colori brillanti e una camicetta in seta sbottonata giusto a far vedere il suo piccolo ciondolo d'oro e un minuscolo neo sotto il collo. Sembrava appartenere a qualche famiglia aristocratica, ma i suoi tacchi, sporchi di fango, facevano intuire che non era stata accompagnata di grazia da qualche galantuomo. Era proprio strano. Così bella ed elegante e così affannata e dismessa.
Fred, stava per guaire un ' No, nessuno qui si chiama cos.... '
Quando d'improvviso, Kayn, coprì la voce dell'amico chiedendo: ' Chi lo cerca? '
Fred, rimase immobile con un piatto tra le mani e l'acqua del lavandino che continuava a scorrere. Tutti fissarono Kayn, quasi come ad aspettare la battuta successiva di un film d'azione.
- Maria Elisabeth Taylor. Tu lo conosci? Tu puoi aiutarmi a trovarlo? - Chiese ansimante la strana donna.
Kayn si alzò, diede un ultimo sorso al suo calice di vino, si asciugò le labbra col bavero della giacca, poggiò dei piccoli cents sul bordo del tavolo, si diresse verso l'appendi abiti e prese il suo cappello. Poi, avvicinandosi alla porta, e scrutando attento la misteriosa fanciulla, disse:
- Credo di sì.
Io... Sono Theodor. -
Fine della prima parte.